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L’Iraq di Bernardo Valli

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Altro che social network, nuove tecnologie e citizen journalism. Quando un vecchio cronista consuma  la suola delle sue scarpe non ce n’è per nessuno. Quello che segue è il reportage del grande Bernardo Valli pubblicato su Repubblica di oggi. E’  la prova che il giornalismo, quello vero, non è affatto morto. E leggere, una volta tanto, è un piacere… 

 

“BAGDAD – Pensavo di descrivere un dopoguerra con le sue piaghe, le sue speranze, i suoi dubbi, e scopro una terra ricca di conflitti. Tanti conflitti roventi, incrociati, adatti ai nostri tempi, senza più fanterie e blindati, che costano in uomini, in soldi e in reputazione. Come ben sanno gli americani appena partiti. Qui adesso vanno le lotte sotterranee con, ben inteso, i soliti, inevitabili morti quasi quotidiani. Il panorama non è mutato. Agli incroci ci sono sempre militari impolverati dalla sabbia del deserto portata nella metropoli dal vento che soffia imperterrito. Sono soldati annoiati o sorridenti, e questo rassicura, anche se lo straniero può scambiare ictus per sorrisi. Numerosi sono anche le autoblindo incrostate nei quartieri, come un vecchio mobilio urbano. I posti di blocco sono diminuiti e sono sempre più formali che efficaci. Sopravvivono i muri di protezione, ma molti sono stati demoliti e ridotti a inamovibili mucchi di macerie. Insomma, la vita è migliorata anche se è ritmata da massacri imprevedibili. Meno frequenti. Asseel, la mia pur intrepida guida, ogni tanto parcheggia l’automobile in un vicolo senza traffico, e fa profondi respiri. Si rilassa. Oppure, quando beviamo un tè alla menta in un luogo chiuso, dice sorridendo: “Almeno qui non rischiamo di inciampare in una bomba”.

Gli iracheni non appaiono comunque angosciati poiché si ha l’impressione che si siano riversati tutti nelle piazze e nelle strade. Il traffico non è intenso: è caotico edesasperante. Agli appuntamenti arrivi con ore di ritardo. Si fa il callo alle morti violente. Qui sono routine da più di vent’anni, da quando è cominciata la prima guerra, quella con l’Iran, all’inizio degli Ottanta. Ed è durata un decennio. Poi sono venute quelle americane. E non conto i massacri ordinati dal raìs, nel frattempo impiccato. Si avverte l’assenza dei soldati americani, per la verità da tempo quasi invisibili. Bagdad si era spogliata di loro ormai da un pezzo, poiché si erano in gran parte acquartierati alle porte dei centri abitati, in 505 basi via via smantellate o cedute agli iracheni. Erano ormai fantasmi e se ne sono andati come fantasmi. Senza fanfare, in silenzio, il 18 dicembre. Questo è dunque l’Iraq dopo l’era americana. Le divise irachene impolverate e i mezzi blindati ancorati nell’asfalto ricordano la scena stabile di un palcoscenico fuori uso. Sembrano qualcosa di inerte. Comparse di un dramma non più rappresentato. Quello nuovo si svolge in altre dimensioni. Il micidiale fuoco d’artificio continua, anche se sporadico, spesso si inceppa e resta perfidamente anonimo. Due volte vigliacco. E’ raro che il massacro di decine di uomini e donne sia firmato.

Quando c’è un attentato, quando esplode un’autobomba (e mi dicono che adesso il conducente scappa prima, non ci tiene più a diventare un martire) in un mercato o tra una colonna di pellegrini in marcia verso la santa Kerbala o l’arcisanta Najaf, luoghi sacri dei musulmani sciiti, non ci si dà troppo da fare per identificare, seguendo le indagini tradizionali, il terrorista o il mandante. Nei conflitti, anche in quelli sotterranei, clandestini, il codice di procedura penale è spesso impraticabile. Ognuno accusa l’avversario. I sospettati sono numerosi e ciascuno indica il “suo” colpevole. Vicino o lontano che sia. Non c’è onestamente il tempo di cercare le prove. Conta l’intuito. Il fiuto politico. La tendenza partigiana. Non c’è un solo paese in prossimità che possa proclamare con la mano sul cuore la propria innocenza. Non certo il limitrofo Iran che cerca di occupare lo spazio lasciato dagli americani. Né la silenziosa e ricca Arabia Saudita, campione dell’Islam sunnita che detesta gli sciiti al governo a Bagdad. E ancora meno la Siria in preda alla guerra civile, dove l’alauita Assad, etnicamente imparentato con gli sciiti, è assediato dai sunniti in rivolta. Eppure su tutti pesano sospetti. In quanto agli autoctoni, sunniti o sciiti membri di un governo di unità nazionale ma divisi da rivalità settarie, si scambiano le accuse di assassinio. Le quali rimbalzano da un campo all’altro, al punto che se ci stai dietro ti viene il torcicollo come guardando una partita di tennis. Tanto per fare un esempio, il primo ministro, lo sciita Nuri el-Maliki, ha accusato di terrorismo il vice presidente, il sunnita Tarik el-Hashemi, e ha spiccato contro di lui un mandato d’arresto. Ma Hashemi si è rifugiato nel semi autonomo Kurdistan, dove giudici e poliziotti non ubbidiscono al potere centrale.

Arrivo in una tiepida sera d’inverno, neppure un mese dopo la partenza dell’ultimo soldato americano. L’ultimo di un’armata che non si sa ancora se abbia occupato per nove anni il paese, oppure l’abbia liberato. Ho scritto l’ultimo? Vale a dire che non c’è più un militare yankee in Mesopotamia? Marine o G. I.? E’ quel che afferma la verità ufficiale, quella di Washington come quella di Bagdad, ma uno si chiede chi siano in realtà i quindicimila (o diciassettemila, la cifra è incerta) americani annidati con i loro passaporti diplomatici nell’ambasciata Usa. Rispetto ai centosettantamila soldati negli anni di punta sono poca cosa. Ma rappresentano una forza non trascurabile.
Mi chiedo quali siano i compiti di quell’armata di diplomatici mentre raggiungo l’albergo nel tramonto che tinge di un rosso sangue l’acqua del Tigri. L’automobile sfiora la muraglia di cemento armato in cui è avvolta la Zona verde, il quartiere bunkerizzato al centro della capitale, dove vivono coloro che temono con ragione per la propria vita. Là dentro sono rinchiusi ministri, deputati, diplomatici, alti funzionari, ed anche gente dell’intelligence, esperti militari, oltre a non pochi benemeriti dediti all’azione umanitaria. E là c’è anche l’ambasciata della superpotenza in ritirata: l’ambasciata più affollata del pianeta.

L’Iraq senza americani è diventato un campo di battaglia nel quale scorrazzano forze rivali a cui non sempre si riesce a dare un’identità. Non tanto lontano da qui la crisi tra gli Stati Uniti e l’Iran assume dimensioni sempre più vistose e pericolose sulla questione nucleare; e in questi giorni si è inasprita per la minaccia iraniana di chiudere lo stretto di Hormuz, dove transitano le petroliere dirette nell’Asia centrale e in Estremo oriente. Nella valle del Tigri e dell’Eufrate, quella crisi si trasforma in un lotta di influenza che spesso sfocia nel terrorismo. E’ come se il minacciato, e forse impossibile conflitto tradizionale, fosse già in atto sotto le forme di una sanguinosa rivalità in cui gli assassini sono mascherati. Per questo dico che sono due volte vigliacchi. Nuri el-Maliki non è certo insensibile ai richiami di Teheran, dove è stato in esilio, quando il sunnita Saddam Hussein era al potere a Bagdad. Tuttavia il primo ministro iracheno è uno sciita che non si abbandona tanto facilmente al vicino regime teocratico degli ayatollah. E’ un religioso ma non dello stesso stampo dei discepoli di Khomeini. Lui è per un potere laico, indipendente dalla moschea. Gli iraniani si sarebbero comunque infiltrati nell’attività economica, nella società politica, e anzitutto nelle milizie, che affiancano i grandi partiti. L’elefantiaca ambasciata degli Stati Uniti, dove non mancano certo gli uomini dell’intelligence e i consiglieri militari, ha come inevitabile compito di evitare che l’Iraq ceda alle pressioni iraniane, e si riveli una facile preda. Il compito è arduo, perché l’America è lontana e l’Iran è alle porte, e i suoi abitanti si riversano nella veste di pellegrini nelle pianure irachene per raggiungere i luoghi santi di Najaf e di Kerbala. Nuri el-Maliki è un equilibrista. Si destreggia tra americani e iraniani.

Sadiq el-Rikabi è un deputato di Dawa, il partito sciita del primo ministro, del quale è un consigliere. Lo incontro in una villetta affondata nel cuore della Zona verde, un angolo tra i più riparati dagli attentati. E’ d’accordo sul fatto che l’Iraq, conclusa l’era americana, è diventato un terreno di scontro tra varie forze, non solo irachene. Ma con cautela diplomatica attribuisce ai rivali sunniti gli ultimi atti di terrorismo contro i pellegrini diretti a Najaf e Kerbala, che hanno fatto almeno duecento morti e migliaia di feriti. Non lo dice apertamente, ma lo lascia capire quando definisce strano il comportamento dei sunniti, al tempo stesso membri del governo di coalizione (dove hanno sei ministeri) e rivali, non solo sul terreno politico. Sadik el-Rikabi sostiene che non sono certo degli sciiti i terroristi accanitisi contro i pellegrini sciiti.
La tesi del deputato sciita non farebbe una grinza, se Karim Abdel Kalek, dirigente di Irakyyia, il partito laico a maggioranza sunnita, non ne sostenesse una altrettanto logica. Incontro Kalek nel bar deserto del Circolo della Caccia, ritrovo della buona società fuggita da tempo in Europa o nei vicini Emirati, e mi fa subito rilevare che gli attentati sono avvenuti in luoghi presidiati dall’esercito e la polizia, strettamente controllati dagli sciiti. E quindi accende il dubbio sul fatto che gli autori potessero essere sunniti. Per lui l’Iran gioca tutti contro tutti; userebbe terroristi sciiti anche contro gli sciiti. L’obiettivo sarebbe di arroventare la situazione e di spingere il primo ministro verso una svolta autoritaria. Dalla quale è in verità già tentato. Un vice primo ministro, Saleh el-Mutlak, l’ha definito un dittatore, e ha pagato caro l’insulto poiché è stato sfiduciato dal parlamento e i soldati hanno presidiato la sua residenza.

Abbandonata la fragile, fatiscente democrazia lasciata dagli americani, e di conseguenza compromessi i rapporti con Washington, Maliki potrebbe diventare col tempo un fedele alleato  -  gregario dell’Iran. Cosi Teheran, che vede sfumare l’alleanza con la Siria di Assad, in preda a una guerra civile, tenta di rafforzare la sua influenza sulle sponde del Tigri e di estromettere gli americani. E’ una strategia che chiede sangue. Simultaneo a quello tra Stati Uniti e Iran, è in corso, sempre sul territorio iracheno, il confronto tra l’Iran e l’Arabia Saudita, i due grandi paesi avversari nel Medio Oriente arabo, entrambi ricchi di petrolio e di fanatismo religioso. I sauditi aiutano i salafiti, gli estremisti dell’Islam, della provincia sunnita di Anbar, e la potente tribù Dulaym, sempre sunnita, dell’Iraq centrale e occidentale. Insomma, dopo nove anni di presenza americana, questo paese è un vulcano tutt’altro che spento.” (BERNARDO VALLI, Repubblica, 13 gennaio 2012)

 

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